gli interventi

intervento di Rita Moriconi

Voglia cominciare questo mio intervento partendo da una citazione di Margaret Thatcher divenuta ormai celebre e che mi piace ricordare perché la trovo davvero azzeccata: In politica – ma io aggiungo che vale anche nella vita in generale – se volete che qualcosa sia detto chiedetelo ad un uomo ma, se volete che qualcosa sia fatto, chiedetelo ad una donna”. Questo per ricordare sempre che, in politica come nella vita e nel lavoro, le Pari Opportunità non sono soltanto una scelta di equità sociale, ma rappresentano innanzitutto la possibilità che la sensibilità e i punti di vista delle donne contino, in politica, sul lavoro e, in particolare, nella vita di tutti i giorni che, come noi tutte ben sappiamo, si regge per lo più sulle spalle delle donne. Io sono fermamente convinta che le società in cui si è dato spazio alle donne, sia sul lavoro che in politica, siano quelle che più si siano evolute sia dal punto di vista sociale che economico e la storia porta molte testimonianze in questo senso, prima di tutto facendo un confronto tra il nord ed il sud del mondo, che sono lo specchio reale di due modi molto diversi di concepire il ruolo della donna nella società. Dell’importanza del miglioramento della condizione femminile sembrano essere consapevoli anche le Nazioni Unite che, partendo dall’impulso innovativo e trasformatore delle donne nella società del 21esimo secolo, hanno messo in stretta relazione gli obiettivi di sviluppo del millennio con l'avanzamento della condizione femminile nel mondo.

Si e' così finalmente costruito un consenso mondiale attorno all'idea che l'empowerment delle donne sia lo strumento più efficace per combattere il sottosviluppo economico e la riduzione della povertà nel mondo: attribuire più potere alle donne promuovendone la piena partecipazione al mondo economico, politico e sociale diventa dunque un obiettivo strategico per realizzare una crescita economica sostenibile, equa e solidale. Sostenere questo processo di empowerment delle donne con leggi che lo sostengano e con misure per lo sviluppo ed il sostegno al lavoro femminile significa dare loro voce assicurandone la formazione, l'istruzione e l’indipendenza economica, ma anche ridurre la loro vulnerabilità e la loro esposizione ai rischi di violenza fisica e morale.

Difficilmente, a mio parere, potremo attivare politiche di sviluppo del lavoro femminile concrete ed adeguate se prima non ridurremo l’impatto devastante che ha la violenza sulle donne, sia quella fisica che morale, sul mancato miglioramento della loro condizione nel mondo.

Mi limiterò a darvi soltanto qualche dato, ma credo sufficiente per far capire qual è l’entità statistica del fenomeno comparando i dati a livello nazionale con quelli registrati nella mia Regione.

In Italia il 31,9% delle donne fra i 16 e 70 anni dichiara di avere subito, almeno una volta nella vita, qualche forma di violenza fisica o sessuale e, in Emilia-Romagna, la percentuale sale al 38,2%; il 94,9% delle violenze fisiche o sessuali subite dal partner (o ex) in Emilia-Romagna non viene denunciato (92,5% in Italia), così come il 97% di quelle subite da parte di non partner (Italia 95,6%). Si tratta quindi di un fenomeno con un sommerso elevatissimo e tutto quanto da stimare e studiare, in particolare per quanto riguarda le classi elevate, con dati che fanno davvero impressione persino per quanto riguarda le forme di violenza più gravi perpetrate da soggetti conosciuti molto vicini alla vittima.

Le violenze nell’ambito dei rapporti di coppia in Emilia-Romagna appaiono essere più gravi di quelle perpetrate da non partner e, poco meno di un quarto delle violenze da parte del partner (o ex), ha avuto come conseguenze ferite o danni fisici; i dati nazionali ci dicono che nel 24,1% dei casi le ferite sono state talmente gravi da richiedere il ricorso a cure mediche, percentuale che aumenta fino al 41,6% nel caso delle ferite inflitte da ex mariti o ex conviventi.

Nonostante la gravità delle conseguenze però, soltanto il 15,3% delle donne considera la violenza subita in ambito domestico un reato: per il 45,8% si tratta soltanto di qualcosa di sbagliato e per il 38,1% di qualcosa che è semplicemente accaduto; più chiara sembra la percezione della rilevanza penale nel caso di violenze subite da uomini non partner (28,2%).

In Italia 1 milione e 400 mila donne ha subito violenza sessuale prima dei 16 anni, il 6,6% delle donne fra i 16 e 70 anni. In Emilia-Romagna questa percentuale raggiunge l’11,5% (più di 171 mila casi). La mia regione presenta, in ogni tipologia di violenza, valori più alti della media nazionale. Tale dato può essere posto in relazione con una maggiore propensione delle emiliano-romagnole a parlare della violenza subita od alla loro maggiore consapevolezza nel riconoscerne la gravità, ma anche dalla possibilità che intravedono di un possibile aiuto ad uscire dal tunnel della violenza domestica.

Purtroppo però non esiste soltanto la violenza domestica: esiste anche quella sul lavoro e, anche in questo caso, i dati sono allarmanti. In Italia sono 842mila (il 5,9%) le donne dai 15 ai 65 anni che sono state sottoposte a ricatti sessuali nel corso della loro vita lavorativa: l’1,7% per essere assunte e la stessa percentuale per conservare il posto o avanzare di carriera; le donne cui è stata richiesta una “disponibilità sessuale” al momento della ricerca del lavoro sono quasi mezzo milione (3,4%). L’Emilia-Romagna si pone in linea con la media nazionale per il tasso di donne che dichiarano di aver subito ricatti sessuali nel corso della vita (5,9%) e notevolmente al di sotto per quanto riguarda gli ultimi 3 anni.

Anche in questo caso a ricerca evidenzia come l’81,7% (Italia) delle vittime dei ricatti non ne parla con nessuno sul posto di lavoro (80,2% negli ultimi 3 anni): solo il 18,3% di coloro che hanno subito ricatti nel corso della vita ha raccontato la propria esperienza, ma quasi nessuna ha denunciato l’episodio alle forze dell’ordine.

Per quanto riguarda poi l’esito del ricatto sessuale, l’ISTAT ha diffuso i dati soltanto a livello nazionale: l’11,9% delle donne che hanno subito ricatti negli ultimi 3 anni (15,7% nel corso della vita) ha preferito non rispondere, ma il 57,2% ha cambiato lavoro o ha rinunciato alla carriera (54,2 negli ultimi 3 anni) e addirittura il 2,5% è stata licenziata (2,0% ultimi 3 anni).

Questi dati fanno emergere come il vero problema sia il contrario di quello di cui veniamo di solito accusate noi donne: il silenzio.

Da qui dobbiamo partire: da una rivoluzione che sia prima di tutto culturale, che quasi “costringa” le donne a parlare, perché senza questo grande passo non ce ne potranno essere altri. Abbiamo un bel da proporre percorsi lavorativi, leggi speciali o formazione ad hoc, ma senza uscire dalla spirale del silenzio e della violenza non ci potrà mai essere vero sviluppo della condizione femminile e questo deve essere chiaro a tutti compagne!

In Emilia Romagna abbiamo 12 centri antiviolenza che lavorano in rete con il coordinamento della Regione e, nel 2010, sono state più di tremila le donne ( il 40% di origine non italiana) ad essersi rivolte a questi centri: un numero addirittura raddoppiato in questi ultimi 10 anni. Questo significa che il fenomeno della violenza non è in calo, ma forse si sta creando una consapevolezze maggiore nella denuncia e nella richiesta di aiuto, il che è sicuramente un dato positivo, ma che oggi si scontra con una congiuntura economica tremenda che vede la crescita costante del disagio sociale ed il calo delle risorse per poterlo fermare.

Purtroppo mi è capitato molte volte di esprimere la paura che, in una fase economica così difficile come quella che stiamo attraversando, siano i più deboli a farne le spese; nel momento in cui le tensioni sociali si acuiscono cresce parallelamente il rischio che si scarichino prima di tutto all’interno della famiglia e che dunque a farne le spese siano principalmente le donne ed i minori. Da amministratore, sono profondamente consapevole della difficoltà di bilancio in cui si trovano oggi gli Enti Pubblici di ogni livello e di quanto sia difficoltoso reggere economicamente i servizi sociali ai livelli raggiunti nei decenni precedenti: non vorrei però che a rimetterci fosse proprio chi subisce violenza, cosa che riterrei inaccettabile e profondamente ingiusta. Il socialismo nacque proprio per difendere chi più aveva bisogno e dunque, in una fase come questa in cui aumentano i bisogni e crescono le fasce deboli della popolazione, non possiamo permetterci di rescindere le nostre radici e di abbandonare quegli ideali che tanto hanno dato a chi più aveva bisogno.

La prima cosa che tutte noi possiamo fare fin da ora sarà dunque vigilare affinché, nelle politiche di bilancio locali, siano mantenuti il più possibile i fondi a sostegno delle donne che hanno subito violenza e fare di questa battaglia la nostra battaglia a tutti i livelli; poi che si possa dare loro accoglienza in strutture adeguate ed un futuro lavorativo che consenta di poter essere autonome e rifarsi una vita lontana dalla violenza subita. E questo è un messaggio che noi dobbiamo portare forte, chiaro e subito in tutte le sedi istituzionali in cui svolgiamo il nostro lavoro. Perché è inutile che si gridi contro la violenza sulle donne se poi non siamo in grado non soltanto di prevenirla, ma neanche di mettere in campo politiche concrete di aiuto e di sostegno. Cosa spingerà una donna a denunciare una violenza se crede che non riceverà un aiuto reale dalle istituzioni? E, quando parlo di aiuto reale, mi riferisco anche alla possibilità di avere un sostegno che consenta loro di avere un lavoro, e qui mi riallacciando al tema di questa giornata: occorrerà creare delle corsie preferenziali di inserimento lavorativo e di formazione professionale per le donne che hanno subito violenza per non lasciarle sole e perché, quando le si accoglie in una struttura adeguata, possano poi uscirne con una nuova prospettiva di vita e non trovarsi di nuovo senza protezione e con il dubbio che, forse, era meglio prendere qualche schiaffo in più, ma almeno avere un tetto sulla testa e qualche soldo per tirare avanti. No compagne, da socialista che parla a delle socialiste, non è questo il futuro che vedo per queste donne, per tutte noi donne!

Che fare di più allora? Si può dire tranquillamente che tanto è stato fatto per aiutare le donne che hanno subito violenza. In Emilia Romagna si è lavorato per aiutare le donne ad uscire dal racket della prostituzione con il progetto “Oltre la Strada”, si sono fatte molte iniziative per proteggere la salute delle donne, si sono attivati servizi di denuncia delle violenze presso i Pronti Soccorsi e si sono attivate politiche contro la pratica delle Mutilazioni Genitali Femminili, a contrasto delle quali io stessa ho portato una risoluzione in Consiglio Regionale.

Molto altro resta però da fare, dato che il fenomeno della violenza contro le donne non accenna a diminuire: anzi, data la delicata situazione economica e sociale, rischia di aggravarsi sempre più.

A mio avviso occorrerà trovare al più presto i fondi per fare opera di prevenzione alla violenza a partire dai gradi più bassi dell’istruzione scolastica. Fenomeni come il bullismo o le baby gang sono l’anticamera culturale in cui può nascere la violenza contro le donne e dunque da lì bisognerà partire affinché la violenza non diventi parte del patrimonio formativo delle giovani generazioni. So che molto si sta già facendo per quanto riguarda le scuole superiori, ma io credo che il problema vada affrontato prima dell’adolescenza anche perché i dati ci dimostrano che si presenta ben prima della fase puberale. Un interessante esperimento è in via di svolgimento a Modena, con l’attivazione di un progetto che ospita uomini che sono stati attori di violenza sulle donne e che sono disposti ad affrontare un percorso psicologico per tentare di risolvere questo loro problema. E’ una primo passo, un’interessante e nuova fase sperimentale con numeri, per ora almeno, davvero limitati, ma questa può essere una strada da percorrere per il futuro, come hanno dimostrato positivamente i percorsi già avviati per chi vuole uscire dalla dipendenza da alcool o dalla dipendenza dal gioco. Dunque, se dovessi riassumere in poche parole il senso più vero del mio intervento, lo riassumerei con SOSTEGNO ALLE POLITICHE DI AIUTO E PROGETTI PER LA PREVENZIONE: solo così potremo continuare a parlare di dignità della donna e di nuove opportunità di lavoro.

Avviandomi a concludere, resto fermamente convinta che il diritto ad un lavoro che sia parimenti retribuito rispetto a quello di un uomo, che offra opportunità di crescita culturale ed economica e che dia autonomia di vita ad ogni donna sia un diritto che non possiamo più negare né negarci; ma non lo facciamo soltanto per noi – il che, intendiamoci, rappresenterebbe già un buon passo avanti – ma lo facciamo perché sarebbe un bel salto di qualità per tutta la società!

Dobbiamo però essere anche consapevoli che, se non saremo capaci di spezzare le catene della violenza domestica e sul lavoro che ancora subiscono tante donne, ben difficilmente potremo crescere nel lavoro e nella società. Aiutiamoci dunque, perché quando le donne si mettono insieme sono peggio del peggior Tsunami, e perché quando abbiamo creduto davvero in qualche cosa il mondo è davvero cambiato.

di Giovanna Miele

C’è una modalità fuorviante di analizzare il difficile periodo che stiamo attraversando. Ed è quella di considerare che la grave crisi economica che sta interessando molti paesi occidentali ( prima gli Stati Uniti, subito dopo ‘Europa e, al suo interno, i paesi più deboli e meno “ virtuosi” tra i quali l’Italia ) sia stata una sorta di calamità naturale inarrestabile, e che i suoi effetti si siano ripercossi generalmente sull’insieme delle comunità interessate. Le cose non stanno così, né sul piano internazionale, né tanto meno in Italia. Non è vero che la crisi fosse inevitabile, perché tutti sanno che essa è figlia di colossali manovre speculative e di azzardate quanto irresponsabili operazioni finanziare; e non è vero che la crisi sta colpendo tutti “ allo stesso modo” perché se registriamo da un lato le drammatiche ripercussioni che essa sta generando tra le fasce più indifese della popolazione, verifichiamo, dall’altro , che vi sono settori, segmenti della società, che sulla crisi stanno lucrando e traggono da essa nuove occasioni di speculazione ed arricchimento. E la distanza tra chi i prezzi “ li paga” , e chi i prezzi “ li fa” si fa ogni giorno di più insostenibile. Il nostro Presidente della Repubblica lancia a più riprese appelli, al fine di scongiurare la rottura della nostra coesione sociale, vale a dire del tessuto connettivo che rende possibile la nostra convivenza civile, politica, democratica.
Ed infatti è proprio questo il rischio incombente sulla nostra comunità nazionale. Una comunità che – come nel resto dell’Occidente sviluppato – ha potuto fruire di notevoli fattori di progresso e di maggiori opportunità di avvicinarsi ad elementi di benessere, e che oggi è obbligata ad un repentino arretramento delle condizioni di vita e di lavoro, ed a fare i conti con una pesante recessione, gravida di incognite e soprattutto priva di credibili prospettive di ripresa e di sviluppo.
Io opero – come psicologa – nel settore dei servizi sociali ne Municipio XV della Capitale. Posso testimoniare, perciò , di come da alcuni anni a questa parte si sia venuta modificando – in qualità e soprattutto in quantità- la natura della domanda che chiede il nostro intervento.
Un numero considerevole – e crescente – di persone si trova in una inedita condizione di emarginazione, di inferiorità rispetto alla comunità organizzata, escluso da una vita dignitosa e serena, privato del lavoro necessario al mantenimento della sua sicurezza materiale. In modo lento, ma progressivo, fasce sempre più numerose di cittadini vengono spinte sulla soglia ,e spesso oltre, delle “ nuove povertà”. E’ giusto sottolineare che spesso – si potrebbe anche dire sempre – l’anello più debole di questa dolorosa catena è rappresentata dalle donne : o prese individualmente, o nella loro qualità di mogli o di madri, e più ancora di anziane, vedove, pensionate generalmente al minimo.
I mutamenti intervenuti con il moderno assetto della struttura sociale sono , d’altronde, un ulteriore detonatore di complessità delle emergenze che si vengono ad evidenziare : il cambiamento demografico, di natura etnica oltre che sociale, l’incremento di nuclei familiari composti da giovani single, il fenomeno delle crescenti forme di coabitazione, l’aumento delle nascite fuori dal matrimonio, il cambiamento del ruolo di genere nella famiglia, la sempre più difficile compatibilità tra tempi di lavoro e tempi di cura dei figli, il positivo allungamento delle aspettative di vita, che genera tuttavia un aumento esponenziale del numero di anziani Ultra settantacinquenni e non sempre autosufficienti: sono tutti problemi che in crescenti condizioni di indigenza risulta assai difficile fronteggiare da parte del cittadini interessato, e praticamente impossibile da supportare da parte della mano pubblica, stante il taglio netto effettuato sulle risorse dei Comuni, attualmente preposti a soddisfare queste necessità.
C’è effettivamente la necessità di costruire un nuovo modello di Stato Sociale. Un modello che, senza rinnegare o peggio azzerare forme di protezione che mantengono tutta la loro validità, sia in grado di reggere alla prova cui ci sottopongono la fase attuale ed il fenomeno delle nuove povertà.
In questo ambito, ritengo che vi siano 4 categorie di cittadini che debbono essere incluse in un progetto più complessivo di “ Nuovo Welfare”:
- gli anziani soli
- le giovani coppie
- i genitori single
- i disoccupati
Il passaggio tra il vecchio e il nuovo modo di concepire la condizione sociale degli anziani rappresenta una delle aree di frontiera nell’analisi delle moderne situazioni di emarginazione sociale.
Sconfiggere la loro solitudine, stabilire canali di comunicazione permanenti, realizzare punti cui rivolgersi in caso di necessità, costruire occasioni di utilizzazione positiva, del tempo libero ed in particolare favorire la continuità del rapporto tra vecchie e nuove generazioni , battendo la tendenza a vederle invece contrapposte o addirittura rivali le una delle altre, dovrebbe costituire il tracciato fondamentale da individuare e perseguire.
Le giovani coppie rientrano comunque tra le tipologie sociali a forte rischio di caduta nelle nuove povertà.
Esse hanno bisogno, almeno nella fase della loro costituzione iniziale, di specifici elementi di sostegno.
Ciò riguarda in particolare l’accesso alla casa, l’ingresso più stabile nel mercato del lavoro, le strutture di sostegno alla nascita ed alla crescita dei figli ( asili nido, scuole, e dopo scuole …).
La terza emergenza da affrontare riguarda le famiglie monogenitoriali.
Profondi mutamenti sociali e culturali stanno modificando la loro fisionomia e soprattutto le cause della loro costituzione.
Quelle che conoscevamo come famiglie monogenitoriali per effetto dalla vedovanza, sono da lacuni anni in qua frutto di separazioni, divorzi, libere unioni o anche soltanto scelte di procreare fuori dal matrimonio e dalla convivenza di coppia.
Sottolineo, in particolare, che la monogenitorialità è un fenomeno a netta prevalenza femminile, così come a prevalenza femminile risulta la necessità di prendersi cura degli anziani.
Le donne sole e capi- famiglie, in cui tale condizione scaturisce da una separazione, o da un divorzio, sperimentano quasi un tipo di isolamento superiore a quello di cui tradizionalmente soffrivano le vedove. La stessa rete di aiuti diffusi, una rete informale derivante da vecchie sedimentazioni culturali, risulta per esse più debole e distante.
Anche questa lontananza da una rete di aiuti e di sostegno contribuisce a favorire situazioni di indigenza e – anche qui – di nuove povertà .
Sul quarto punto di emergenza vera, quello della disoccupazione vorrei tralasciare di svolgere notazioni specifiche: è talmente presente a tutti noi che credo sia obiettivamente superfluo ogni ulteriore approfondimento.
In conclusione, è dunque possibile rilevare nel fenomeno delle nuove povertà una duplice dominanza: quella delle crescenti difficoltà economiche e quella dei bisogni relazionali e sociali che generano emarginazione ed inferiorità sociale in tanta parte della nostra popolazione.
Io ritengo che l’unica chiave di accesso per l’attivazione di strategie di recupero e di reintegrazione di queste persone stia nel passaggio dal concetto di “ Welfare State” a quello di “Welfare Community”.
L’esigenza di costruire un nuovo legame comunitario – una nuova “ coesione sociale “- si rileva, per combattere le nuove povertà, la necessità più stringente, il bisogno sociale più impellente.
Spetta perciò alle istituzioni che guidano lo Stato sociale assolvere oggi ad una nuova e delicata funzione di “maternage” aiutando la società civile a ritrovare e realizzare la propria natura più profonda, quella essenza consapevole di “ comunità “ che permetta ai suoi componenti – a partire dalle fasce più deboli – una partecipazione attiva e responsabile alla civile convivenza.
E’ un problema di strutture, di strumenti, di finalizzazione di mezzi e dotazioni finanziarie. Ma è soprattutto un veicolo per rendere effettive l’equità ed il diritto di cittadinanza. Noi socialisti, noi riformisti, intendiamo principalmente così favorire l’approdo positivo verso un nuovo Welfare. Con lo Stato che sa farsi garante dei diritti del cittadino, dettando le regole del gioco, e tuttavia non invadendone le sfere di autonomia, di autodeterminazione, anzi favorendo- nel tempo – la cessione di quote di potere e di gestione verso le forme che responsabilizzino direttamente i cittadini interessati attraverso l’associazionismo, la cooperazione, le forme diffuse di volontariato.
Dal “ Welfare State” alla “Welfare Community”.
Una bella sfida. Una sfida da vincere. Con noi donne, come sempre, in prima fila.

di Angioletta Massimino

Care Compagne, cari Compagni,
sono onorata di essere qui, oggi, a questo Convegno delle donne socialiste, dove ognuna di noi vuole dare il proprio apporto, provenendo da regioni diverse d’Italia, con il proprio vissuto di donna, di lavoratrice, di socialista.
Io sono Siciliana, Socialista e figlia di Socialista, e vengo da Catania, dove per più di vent’anni ho fatto l’imprenditrice nel campo della stampa e dell’Editoria, portando avanti, da sola, nonostante le enormi difficoltà incontrate, un’azienda tipo-litografica e una Casa Editrice da me fondata, con la quale sono riuscita a fare anche lavoro di rete insieme ad altri Editori del Nord Italia, quali Giuffré, Giappichelli ed altri.
Una terra difficile la Sicilia, dove coesistono tanti contrasti: da una parte, le bellezze di una terra fantastica e di un popolo forte, abituato ai sacrifici, alle lotte, a inventarsi un lavoro anche quando il lavoro non c’è, dove vivono donne dal cuore grande, madri, mogli, lavoratrici, professioniste, pronte a battersi per difendere i propri diritti, quando il maschilismo proveniente da un retaggio storico-culturale, non ancora del tutto sconfitto, tende a prendere il sopravvento. Da un’altra parte i problemi di una terra che appartiene al Sud dell’Italia, dove è ancora marcato il divario rispetto al Nord, sia in termini di sviluppo, sia in termini di occupazione e dove per le donne è sempre più difficile trovare un lavoro, come si evince dai tassi di disoccupazione femminile più alti rispetto a quelli maschili. E ove si avesse la fortuna di trovarne uno, è facile riscontrare delle diseguaglianze retributive, pur in presenza di parità di qualifiche e di mansioni, o ancora, è facile riscontrare discriminazioni nel conferimento d’incarichi, specie se implicano ruoli importanti a carattere decisionale.


Data la situazione, per necessità o per bisogno di autoaffermazione, uscendo dalle logiche opprimenti del lavoro dipendente, sempre più donne decidono di investire le proprie capacità nell’Imprenditoria, ma anche in questo campo trovano più difficoltà rispetto agli uomini, per avviare un’impresa e per accedere ai finanziamenti, pertanto si è posta l’esigenza di rimediare a questi divari, attraverso politiche di sostegno, volte all’inserimento della donna nel mondo del lavoro e nelle attività economiche, applicando il principio di “pari opportunità” tra uomini e donne, con strumenti istituzionali, normativi e finanziari, a carattere europeo, statale, regionale e locale, perché le “pari opportunità” non risultano essere un normale diritto acquisito, ma pare siano diventate una conquista eccezionale.
Se andiamo a fare un exursus storico, è mortificante constatare quello che è stato necessario fare affinché la donna potesse uscire dalla segregazione in cui per secoli è stata condannata. Diciamo, pure, che le colpe sono anche delle donne che per secoli si sono rassegnate a vivere in questa condizione di sudditanza, o per paura, o per acquiescenza, o per mancanza di capacità, o per comodità, preferendo restare a casa e delegare all’uomo tutto quanto riguardasse il mondo del lavoro, creando di fatto questa disparità concettuale tra uomo e donna.
In tempi più o meno recenti, è stato necessario che intervenisse l’Unione Europea con i Trattati dell’Unione Europea per impegnare l’Unione e i Paesi membri a promuovere la parità tra uomini e donne, combattendo qualsiasi discriminazione che sia fondata sul sesso, attraverso norme, azioni e programmi anche collegati ad altri temi, come il contrasto alla povertà, l’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, la partecipazione all’economia, nonché alla tutela dei diritti delle donne in quanto diritti dell’uomo, tutelati anche dalla Costituzione.
E meno male che l’hanno riconosciuto questo diritto!!! Ma ci voleva tanto???? E’ così difficile riconoscere un normale diritto alla “parità”???
Pur tuttavia, negli Stati membri, il numero delle donne imprenditrici che hanno accesso ai capitali di finanziamento per creare impresa, rimane ancora molto basso.
L’Italia risulta tra i primi Paesi dell’Unione che abbia previsto incentivi all’Imprenditoria femminile, onde evitare la discriminazione tra i sessi e promuovere le “pari opportunità” nella vita sociale ed economica, ma il sistema imprenditoriale ha ritardato a decollare, rispetto ad altri paesi come Inghilterra e Francia.
Le imprese femminili, in Italia, sono di numero più elevato in settori tradizionali, inerenti servizi sanitari, sociali, personali, domestici, alberghieri e ristorativi, mentre è ancora molto basso in settori della scienza e dell’alta tecnologia.
L’Italia, recependo le direttive europee ha varato leggi riguardanti l’occupazione e l’imprenditoria femminile di cui la più importante è stata la L. 215/1992 “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”, ma praticamente, oggi, questa legge pur essendo vigente, è stata svuotata di significato e non si possono presentare progetti, sostituiti da bandi regionali, in quanto inserita in un quadro strategico più ampio nell’ambito della riorganizzazione normativa introdotta dal D. Lgs. N. 198 del 2006, con il “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”.
Pur tuttavia, quindi, non si è ancora raggiunto il traguardo sperato, anche se piccoli passi in avanti se ne sono fatti. Ma non possiamo accontentarci!!!
Oggi, solo un quarto delle imprese italiane sono al femminile, guidate da donne che hanno intrapreso un’attività imprenditoriale, scommettendo sui propri talenti.
Alla fine del 2011, l’Osservatorio dell’Imprenditoria Femminile di UNIONCAMERE ha segnalato quasi 7.000 imprese femminili in più rispetto al 2010, con un saldo esattamente di 1.433.863 imprese femminili, pari al 23,5% del totale delle imprese italiane.
Nel Mezzogiorno, Abruzzo, Basilicata e Molise, hanno il maggior numero d’imprese guidate da donne e recenti studi hanno dimostrato, tra l’altro, che le aziende guidate da donne imprenditrici, più velocemente di altre guidate da uomini, hanno aumentato rapidamente i loro ricavi, come pure, che le Società con una marcata presenza femminile ai vertici, hanno conseguito i migliori risultati. Inoltre, è stato accertato che in un Paese, più sale il tasso di occupazione femminile, più aumenta il prodotto interno lordo, malgrado le donne abbiano un carico di lavoro doppio rispetto agli uomini, avendo quasi per intero, il più delle volte, anche il peso del lavoro a casa e in famiglia.
E’ umiliante che ancora risulti necessario che si approvino leggi per le “Quote rosa”, come quella approvata il 28 Giugno dello scorso anno, per i Consigli di Amministrazione delle aziende quotate in Borsa e delle Società controllate pubbliche non quotate in Borsa, per cui in base a questa legge: “i Consigli d’Amministrazione dovranno essere composti da un quinto di donne a partire dal 2012 e da un terzo dal 2015”.
Sembra quasi che ci stiano facendo una concessione, per tenerci buone, dimenticando che è un nostro sacrosanto diritto, avendone le capacità, essere presenti ai vertici decisionali, o ai posti di comando, al pari degli uomini.
Questo ci deve indignare, ci deve scuotere, dobbiamo coalizzarci e lavorare insieme!!!
E se facessimo una campagna elettorale, per le prossime elezioni, dove portiamo in campo l’iniziativa che le donne devono votare solo per le donne????
Se noi donne di tutta Italia, fossimo coalizzate, potremmo fare arrivare gli UOMINI a chiedere le “Quote Azzurre”, altro che Quote Rosa!!!!!!!!!!!
La mia Regione, la Sicilia, risulta destinataria fino al 2013 di ingenti somme di denaro, quali contributi europei, nell’ambito della Programmazione dei Fondi Strutturali 2007-2013, ma esiste il pericolo, peraltro già sperimentato, che tali Fondi siano dispersi, o subiscano un cattivo utilizzo, o addirittura non siano spesi per mancanza di idonei progetti, che possano nascere dalle sinergie tra i vari livelli di governo e i soggetti della società civile.
Tutto ciò E’ VERGOGNOSO!!!!!!! specie in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo!!!
Noi donne abbiamo il dovere, quindi, di mettere a frutto le nostre capacità per utilizzare, almeno, quello che già abbiamo e non permettere che Fondi stanziati dall’Unione Europea tornino indietro inutilizzati.
E’ necessaria, però, per evitare di perdere tempo inutilmente, una formazione specifica che possa orientare anche nel campo legislativo, accompagnata da un sistema di tutoraggio, e da un capillare lavoro di rete, anche attraverso la rete.
A tal fine i Comitati per l’Imprenditoria Femminile, presenti e operativi in tutte le Camere di Commercio, svolgono un ruolo importante attraverso una rete di donne imprenditrici, designate dalle associazioni degli imprenditori, che con impegno operano per affiancare e orientare le donne che dirigono un’azienda, lavorando di concerto con UNIONCAMERE e il Ministero dello Sviluppo Economico.
E allora sfruttiamo queste possibilità che abbiamo, informiamoci, documentiamoci, facciamo rete, insomma LAVORIAMO INSIEME!!!
Un bell’esempio, da prendere in considerazione per imitarlo, ci viene dall’iniziativa “Madre-Figlia” promossa da UNIONCAMERE Toscana, con la collaborazione della Regione Toscana.
Questa iniziativa svolge un’azione di “mentoring”, cioè di accompagnamento da parte di un’imprenditrice già affermata nei confronti di un’imprenditrice agli esordi, per agevolarne lo sviluppo della carriera e della cultura d’impresa, a cominciare dalla fase dell’avvio dell’attività, fino al consolidamento.
Importanti risultano i momenti di confronto riguardo alle opinioni, alle esperienze tra le imprenditrici e la possibile creazione di reti di relazioni e di competenze, anche per attività diverse ma simili nella gestione.
A tal fine, utile sarebbe, come sempre più spesso se ne parla, individuare, raccogliere, catalogare e analizzare, le così dette “buone pratiche”, per poi diffonderle e replicarle.
Trasferire ad altri esperienze imprenditoriali che hanno trovato successo, significa avvantaggiare chi ha bisogno, evitandogli di partire da zero, evitando errori e inutili sperimentazioni, ottimizzando perciò il tempo e le risorse.
Questa ipotesi, ancor più nel campo femminile sarebbe idonea, proprio perché il condividere, diffondere esperienze, fare rete, è proprio delle donne.
Esistono, per esempio, dei manuali sulle “buone pratiche”, riguardo all’imprenditoria femminile, come quello pubblicato a Vicenza: “Idee, fatti e buone pratiche per l’impresa femminile a Vicenza”.
Un’altra proposta interessante sarebbe anche quella d’introdurre “l’Imprenditoria” come materia d’insegnamento nelle Scuole, proprio per abituare i giovani a pensare e imparare a “fare impresa”, dimenticando la vecchia idea del posto fisso, che molto spesso li porta a restare disoccupati, in attesa di un posto che non c’è, magari fino a trent’anni, col rischio d’incorrere in devianze o di delinquere.
Oggi, “l’Imprenditoria” è necessario abbia anche un indirizzo “ETICO”, volta al recupero sociale sia di uomini e donne che abbiano intrapreso percorsi sbagliati, sia al recupero, tutela, salvaguardia e valorizzazione del territorio, dell’ambiente, delle culture locali, per mettere in relazione consapevole il territorio con la comunità che vi abita.
E’ quello che ho cercato di fare nella mia attività d’imprenditrice!
Ho sempre considerato la mia azienda come una famiglia e con i miei operai ho cercato di creare un rapporto familiare, interessandomi dei problemi personali e familiari di ognuno di loro e cercando di aiutarli a risolverli ove fosse possibile.
Ho cercato anche, tramite la mia attività, di dare agli altri la possibilità del recupero della persona, offrendo magari un lavoro a chi non l’aveva e non trovava qualcuno disposto ad offrirglielo, perché uscito dalla galera, instaurando un rapporto di fiducia proprio con chi tanto degno di fiducia non fosse, visti i precedenti.
Ho imparato, infatti, che dare fiducia a chi sa di non meritarla è il modo migliore per strappargli, senza chiederglielo, l’impegno morale a meritarla.
E’ stata una bellissima esperienza che ha arricchito sia me che questo ragazzo, portandolo a modificare molti modi di pensare e di agire, come se il fatto di ricevere inaspettatamente la mia fiducia gli avesse aperto le porte di un mondo nuovo.
Un’altra bellissima esperienza, che brevemente voglio qui raccontare, in cui ritorna di nuovo il carcere a fare da sfondo, l’ho avuta con una persona detenuta appunto nelle “patrie galere”. Quest’uomo, padre di famiglia, finito in carcere per errori di percorso, proprio non riusciva ad adattarsi a stare, degli anni, in una cella angusta e sporca, di venti metri quadrati, in cui vivevano in sette (e si far per dire vivere), nelle condizioni disumane in cui tutti sappiamo vivono i carcerati.
Aveva provato il suicidio già due volte, ma fortunatamente erano riusciti a salvarlo, e trascorreva le sue giornate pensando solo a come fare per riuscire a suicidarsi, senza rischiare di essere salvato di nuovo.
Di quei sette compagni di cella era l’unico che sapesse scrivere, avendo il titolo di scuola media, ma in un linguaggio tutto suo, ricco però di fantasia, e siccome i suoi compagni erano per lo più analfabeti, lui diventò colui cui tutti si rivolgevano per scrivere lettere alle famiglie.
Cominciò ad arricchire queste lettere con la sua fantasia e da qui, per ingannare il tempo che i detenuti in carcere chiamano “tempo lumaca”, gli venne l’idea di scrivere delle storie e questo lo distolse dall’idea fissa del suicidio.
Un giorno venne da me la sorella con il manoscritto del fratello carcerato, pregandomi di pubblicarlo, perché era la sola speranza che avesse per salvarlo dal suicidio.
Intrapresi con lui una comunicazione epistolare, in cui affrontammo diversi temi, dall’importanza della legge morale che sta dentro di noi, a quello della fede che deve guidarci e sostenerci.
Gli promisi che avrei pubblicato il suo libro, riscrivendolo in un italiano comprensibile, ma lasciando intatto il suo stile semplice, a patto però che lui non pensasse più al suicidio e che una volta superato il processo con l’assoluzione, come si sperava, non tornasse mai più a delinquere, a qualsiasi costo.
Esperienza questa rivelatasi vincente al fine del recupero sociale di questo improvvisato scrittore carcerato, che non sapeva scrivere, ma che con il mio aiuto balzò agli onori della cronaca sui giornali, non per fatti delinquenziali ma per il suo LIBRO, presentato da me a Catania durante un Convegno inerente proprio il tema delle Carceri, insieme al Magistrato catanese, Sebastiano Ardita, allora Direttore del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), la Senatrice Anna Finocchiaro e L’On. Enzo Trantino.
Da questa esperienza è nata in me l’idea di fare dei “corsi di formazione” in carcere, che vuole essere anche una proposta, proprio con laboratori di scrittura, dove ognuno di loro possa avere la possibilità di mettere su carta le proprie esperienze, le proprie riflessioni, i propri dolori, affinché questo lavoro possa avere sia una funzione catartica, sia la funzione di autorealizzazione, raccogliendo tutte le loro storie per farne un libro, scritto proprio da loro.
Progetto, questo, che ancora non ha trovato realizzazione, ma con un po’ di buona volontà e testardaggine, penso, prima o poi, ci riuscirò, nonostante la burocrazia non mi agevoli.
Oppure ancora, riguardo al recupero dei valori, culture, tradizioni, con un gruppo di mie amiche sto cercando, attualmente, di portare avanti, sul territorio catanese, un progetto intitolato “C’era una volta”, che si prefigge, appunto, il recupero, in ambiente rurale, dell’integrità della persona umana e delle sue costruttive relazioni con i membri della comunità, tramite la riscoperta delle risorse offerte dal territorio, nell’ambito artigianale, agricolo, culturale, religioso, artistico e gastronomico, al fine di creare un tessuto sociale più consono al sostegno della dignità umana.
Il raggiungimento di tale obiettivo sarà effettuato tramite seminari d’informazione-formazione e attività di laboratori, che trattino argomenti inerenti le finalità del progetto e saranno rivolti anche a bambini e ragazzi al fine di distoglierli dalla cultura prettamente tecnologica e alienante che paralizza lo sviluppo delle relazioni umane tra coetanei e adulti.
Per concludere, ritengo che noi donne possiamo e dobbiamo incamminarci sulla strada dell’”Imprenditoria Etica”, per contribuire in maniera incisiva nelle nostre regioni, province, città o paesi, a dare un contributo determinante all’occupazione e alla salvaguardia della dignità umana, facendo in modo che l’art. 1 della nostra Costituzione, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, non diventi una farneticazione legislativa, ma un diritto basilare, affinché ogni individuo abbia una dignità e, soprattutto, attraverso il lavoro possa essere “LIBERO”!!!
Al nostro Partito, il Partito Socialista Italiano, chiedo: di darci una mano nel combattere le nostre battaglie per i nostri diritti e nel portare avanti i temi dell’eticità, della dignità umana, del lavoro e della libertà.

di Giovanna D' Ingianna

“I Diversi”: quali opportunità”.

Sono diversi anni che ho scelto di guardare il mondo con gli occhi dei più deboli, perché sono convinta che ancora esiste uno stato del privilegio, del favore personale piuttosto che uno stato di diritto. I più deboli che sono spesso i più fragili perché affetti da malattia e/o diversamente abili, non hanno voce per far valere i propri diritti; recenti indagini del Censis hanno dimostrato come ancora esistono dei forti pregiudizi verso queste persone ma soprattutto come la scarsa informazione sulla disabilità non consente di modificare il sistema per permettere la vera inclusione sociale di quanti possono insegnarci tanto in termini di volontà, tenacia e capacità di adattamento. Certo, le difficoltà sono tante, spesso loro stessi non riescono ad accettare la loro “diversa” condizione; ma proprio per questo tocca a noi operatori, sono una logopedista e mi occupo di disturbi della comunicazione e disturbi motori da circa 25 anni, dicevo tocca a noi trovare il canale giusto per ottimizzare al meglio la qualità della vita, aiutandoli nell’accettazione del loro essere diversi ma non per questo incapaci di imparare. La nostra letteratura, quella degli specialisti della riabilitazione, ci insegna come, attraverso processi speciali e comunque adattabili, anche chi ha delle difficoltà o degli handicap, riesce ad apprendere funzioni necessarie e basilari per la quotidianità della vita.
 Il bene comune deve essere motore trainante anche per l’inclusione delle persone diversamente abili. Hanno bisogno di servizi alla persona, di esser guidati, certo, ma hanno anche e soprattutto bisogno di sentirsi coinvolti nella comunità di appartenenza, nella quale il loro contributo può determinare la nostra crescita personale e culturale per abbattere le vere barriere architettoniche che sono quelle che abbiamo nel nostro cuore.
Le persone diversamente abili riescono con trattamenti riabilitativi adeguati, a recuperare molto bene alcune funzioni inficiate dalla patologia congenita o acquisita. Intervenire sul loro stato di salute significa potenziare e/o sviluppare le funzioni che permettono l’autonomia partendo dalle loro capacità residue. E’ un lavoro lungo, certosino, mediante tecniche conosciute dagli addetti ai lavori ma spesso mediante esercizi e stimoli improvvisati perché molto dipende dallo stato fisico e psicologico del paziente in quel preciso momento. E’ un continuo mettersi alla prova, esercitando il proprio sapere ma soprattutto le proprie capacità relazionali ed umane nella consapevolezza che da qui bisogna partire. Esiste un vero “lusso” che è quello dei rapporti umani, che se messo in gioco con queste persone “diverse” immancabilmente tu diventi più ricco.
All’inizio di marzo sono stata in Terra Santa dove ho conosciuto un mondo diverso dal nostro sotto tanti punti di vista, dove di precario non vi è solo il lavoro, l’economia, ma la vita stessa; eppure nonostante molto diverso, lì si lotta continuamente per la libertà, per l’uguaglianza sociale per la democrazia, per tutto ciò che per noi socialisti è sempre stato valore fondamentale, degno della cultura di un popolo che vuole costruirsi la propria storia, che vuole essere indipendente da forme di tirannie di qualsiasi genere, che vuole far valer i propri diritti, che vuole con forza dire “sono una persona, riconoscetemi come tale con o senza l’uso della parola, con o senza l’uso della gambe, con o senza la capacità di relazionarmi; sono una persona e ho il diritto di stare qui con voi e di essere ascoltato”. I diversamente abili sono un popolo in cerca della loro indipendenza, della loro uguaglianza sociale, avidi di democrazia, bisognosi di essere riconosciuti come parte integrante nella costruzione della nostra storia, la storia di un popolo che sa guardare al futuro sapendo di dover considerare il passato e di dover partire dal presente in cui vanno affondate le radici solide legate alla salvaguardia dei diritti dell’uomo e soprattutto che venga rispettata la sua dignità.
E’ cambiato il sistema della comunicazione, questo è noto a tutti, ma vorrei porre alla vostra attenzione una considerazione: vi siete chiesti quante volte abbiamo perso il piacere e la gioia che ci regala un sorriso di un bambino, di una persona che possiamo guardare negli occhi, quante informazioni riceviamo da una stretta di mano, da un abbraccio, tutte cose che non possiamo sentire e vedere se parliamo con un nostro amico o presunto amico per via cavo o per web!? Di sicuro l’utilità e la grande opportunità dataci da internet e quanto ne consegue non possiamo negarla, ma quelle relazioni, l’importanza della comunicazione attraverso anche linguaggi non verbali hanno perso il loro valore, quel giusto significato, vale a dire la motivazione che sottende alle relazioni e ai rapporti umani su cui si basano le regole di una comunità. Grazie a questi linguaggi, io stessa nel vedere e conoscere molti bambini arabi, sono riuscita a comunicare con loro avvallando il concetto che i bambini sono uguali in tutto il mondo e che se si usa con loro un modo di parlare semplice, diretto, amorevole si può trovare il modo come aiutarli, risolvendo alcune problematiche che li identificano come “diversi”.
  Il mondo intero è una comunità fatta di relazioni, di uomini che debbono pensare al bene comune, alla crescita dei propri figli che ci danno in prestito il loro futuro - per dirlo con le parole di Roberto Benigni- e di cui noi adulti siamo riferimento e garanzia della loro vita. I ragazzi in genere, hanno bisogno di essere ascoltati, di esprimere quelli che sono i loro bisogni, e noi adulti, con la giusta autorevolezza, dobbiamo dare delle risposte aiutandoli nel cammino meraviglioso che è la vita, degna di essere vissuta  sempre e comunque.
A questo punto dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per ottimizzare la qualità della vita di tutti e come possiamo agevolare la vera inclusione dei diversamente abili in un sistema che deve essere necessariamente modificato?
Senza dubbio bisogna pensare alla creazione di servizi alla persona attraverso risorse legate ai fondi europei che mettano a disposizione risorse umane opportunamente formate, garantendo processi educativi e formativi per i diversamente abili in un sistema di conurbazione dei servizi sociali dei comuni di un intero territorio; da qui garantire i collegamenti e la giusta viabilità e la collaborazione delle associazioni di volontariato presenti in loco dando loro la giusta visibilità e il giusto ruolo che non è certo quello di sostituirsi alle istituzioni, piuttosto quello di interagire con esse rispettando il ruolo e le mansioni. Non si può e non di deve far fare ad altri ciò che rappresenta un dovere delle istituzioni per la salvaguardia dei diritti dei cittadini. Il volontariato ha un ruolo importante nella comunità ma è fondato sulla disponibilità di chi, gratuitamente, mette a disposizione dei più deboli, del proprio tempo e delle proprie risorse. Le istituzioni devono quindi garantire il diritto alla salute e l’uguaglianza sociale anche a chi necessita di aiuti “speciali”.
Detto questo, un esempio di una struttura atta a garantire questi principi, potrebbe essere un centro di accoglienza per persone diversamente abili dove attuare attività laboratoriali di ogni genere, mirate al miglioramento e/o all’ottenimento delle autonomie personali e sociali. Un luogo dove queste persone, guidate da personale esperto, e qui non va disattesa la grande opportunità di creare lavoro, svolgano attività socio-riabilitative, di manipolazione, di cura ed igiene personale, imparino una attività artigianale, imparino anche a cucinare ad essere cioè autonomi, pensando anche a quello che sarà la loro vita quando la propria famiglia, o meglio i genitori, relegati e spesso soli nella gestione di situazioni così gravose, non ci saranno più. Inoltre attività ricreative come il teatro, la musica, la pittura, la lavorazione della ceramica ed altro ancora, utili per un loro reinserimento in ambito sociale, dove, attraverso esperienze e gite fuori porta, possano trovare la giusta collocazione nel rispetto della loro dignità. Il garantire servizi alla persona facendo interagire Stato, Regioni, Province e Comuni è sancito da una legge quadro, la 328 del 2000, sulle politiche sociali e che pone al centro l’individuo e nello specifico, le persone deboli, quali i bambini, i diversamente abili, gli anziani, gli stranieri. Basterebbe quindi attuare ciò che è stato stabilito da questa legge e creare la giusta rete tra le varie istituzioni e le associazioni, supervisionando sempre e comunque i risultati e il buon funzionamento delle iniziative intraprese. E’ necessaria una programmazione dello stato sociale che parta dall’individuazione dei bisogni dei cittadini più deboli e che tenga in seria considerazione le famiglie che vivono quotidianamente quel disagio e dalle quali, se sapientemente ascoltate, si possono trovare le soluzioni a vari problemi. Questo è il nostro modo di fare politica, considerando la politica, nel suo significato più nobile: strumento per “fare il bene comune”.

di Margherita Torrio 
 Una regione per certi versi anomala nel mezzogiorno, probabilmente a cominciare dalla  unificazione dell’Italia cui partecipò intensamente, non tanto con forze ideologicamente murattiane, o mazziniane, come in altre regioni del sud, ma con una scelta piuttosto orientata al moderatismo ispirato al Cavour.
Manca la criminalità organizzata. Il rischio di infiltrazioni malavitose, richiamate dalla ricostruzione dopo l’ottanta, e oggi dalle grandi attività costruttive, dai fondi europei, o da quelli del petrolio è, però, avvertito e monitorato.
La regione esce da una condizione agricola; ha trovato espressione in una borghesia prima latifondista, poi cresciuta nelle facoltà di diritto a Napoli e a Bari, infine intorno alle istituzioni soprattutto regionali; ha conosciuto un periodo di industrializzazione alla fine degli anni sessanta, poi negli anni ottanta. Molte delle industrie sono state  impiantate da  imprenditori di fuori regione che poi sono andati via.chiudendo dopo gli incentivi. Poi negli anni ottanta sono arrivate la  FIAT, l’Università. Oggi, nella fase di crisi delle industrie e delle iniziative imprenditoriali, molte industrie hanno chiuso; delle poche, in particolare, restano Marcecaglia nell’area di Potenza e FIAT nell’area di Melfi. Il petrolio, nella Val d’Agri e sui crinali  a ridosso di questa, costituisce una delle risorse più importanti anche se poco produttiva in termini di occupazione, essendo buona parte degli addetti provenienti da altre regioni, ed in termini di iniziative lavorative e crescita sul territorio. Prospettive significative possono essere costituite dall’investimento sulle energie alternative. Non possono essere sottovalutate come volano di crescita per la regione l’agricoltura e il turismo, spesso però in rotta di collisione con le precedenti essendo potenzialmente sviluppabili proprio dove è più forte il rischio di inquinamento per le estrazioni petrolifere o per la evidente presenza di pannelli che riempiono ampi distese di territorio.
In questo scenario, i dati  sull’occupazione femminile risultano contraddittori. Sembrano aumentare ma soprattutto nel precariato e nel part-time che è soprattutto femminile ( 83%). Ne consegue una condizione discriminatoria sia rispetto alla carriera che ai ruoli ed incarichi coperti; flessibilità e lavoro atipico risultano, dalle indagini e dai rapporti della Commissione Pari Opportunità, una presenza evanescente nel mercato occupazionale. Sul fronte delle retribuzioni queste sono inferiori mediamente del 24%; nelle professioni il gap è più marcato.  Il divario rispetto agli obiettivi fissati   a Lisbona è evidente. E’ulteriormente negativo lo scenario nelle unità produttive di piccole dimensioni come quelle artigiane, o le piccole imprese, soprattutto a gestione familiare, che pagano maggiormente la flessibilità dei mercati, tendono a non assorbire laureati e figure alto-professionalizzate,  non riescono a sostenere in termini di competitività le situazioni contingenti, determinando un ulteriore calo di occupazione anche fra le donne. C’è inoltre un contrasto evidente tra un alto livello di istruzione (diploma e laurea e la  situazione occupazionale che le giovani donne riescono a garantirsi sul territorio). L’altro aspetto è l’ aumento del lavoro nero  soprattutto nella industria, soprattutto nella piccola  e piccolissima impresa(ndr. anche quella che riguarda editoria e informazione), come ha sottolineato di recente la Gazzetta del Mezzogiorno (cinquantamila lavoratori nell’esercito degli irregolari con un  giro del sommerso stimato in cifre che vanno da 1,4 a 1,9 miliardi di euro).
     La disattesa alla richiesta delle giovani donne a  fare non solo il  lavoro in linea con gli studi seguiti ed i corsi di formazione attivati dalla regione, ma a trovare effettive possibilità lavorative, comporta  un alto tasso di emigrazione, cui ormai in moltissimi, uomini e donne si rassegnano. E’ la più grande risorsa che perdiamo che fa ulteriormente lievitare il fenomeno migratorio di cui le   conseguenze sociali sono pesanti: decresce il numero degli abitanti  in età dai 16 ai 64 anni.  Il problema fondamentale è che le ipotesi di intervento sono scollegate. Quelli prodotti sin qui dalla Regione sembrano  rispondere ad una logica priva di una visione di insieme ed efficace nel lungo periodo progettualmente per dare un nuovo respiro alla regione.
  Il lavoro rappresenta la centralità del ragionamento su cui devono concentrarsi in sinergia, favorendo la messa in rete delle iniziative, le istituzioni, la scuola, l’Università, il Cnr, agenzie di ricerca e di programmazione, gli enti che operano per lo sviluppo e la valorizzazione dei settori culturali ed ambientali,  passando attraverso  nodi fondamentali: di quali lavori (con l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, capacità di intervenire sulle necessità del territorio stesso, imprese, artigianato, nuove attività etc etc) ha bisogno il territorio; quali sono venuti meno rispetto al passato; se sono venuti meno perché inutili o perché non di moda ( prendiamo il termine in senso molto lato); quali mancano; quali e quanti sono “riempiti” da personale occupato più o meno stabilmente sul territorio; quali sono le conoscenze,competenze, abilità etc. che hanno i nostri giovani; se c’è consonanza o dissonanza tra esigenze dei territori nel senso di prospettive di crescita e formazione delle giovani donne e dei giovani; quali reti possono attivare per potenziare le loro possibilità di lavoro; quali qualificazioni in termini anche di tecnologia per il controllo e la salvaguardia del territorio possono guadagnare e quali possono pretendere dalle istituzioni.
 Le associazioni femminili di area di centro sinistra si stanno impegnando per il monitoraggio della situazione.


DONNE E CARRIERE: L’EFFETTO SOFFITTO DI CRISTALLO
 di Paola Schiavulli

Quanto cercherò di spiegare in questo mio intervento è supportato da un lavoro di ricerca tra le principali università italiane e straniere, tutt’ora in progress. Il progetto è ampio e le finalità generali sono quelle di analizzare le ragioni di un’ esclusione o quanto meno di un’emarginazione che dura tenacemente nel tempo. I problemi che le donne sperimentano con le dimensioni più istituzionali della vita pubblica non solo rendono per loro più difficile il pieno esercizio dei più fondamentali diritti politici, ma pongono anche in discussione lo stesso statuto delle democrazie occidentali. Ciò che desidero dimostrare è che tale esclusione non avviene a caso, ma che l’oggettiva difficoltà delle donne di sfondare il soffitto è formulata sulla base di fattori che creano ognuno ostacoli diversi allo sviluppo delle carriere femminili. Per spiegare tale fenomeno che estromette le donne ai vertici si ricorre al concetto di “glass ceiling" o "soffitto di cristallo" per indicare il punto invisibile della scala istituzionale ed aziendale oltre il quale le donne non riescono ad andare. Il termine fu coniato in America nell’ 84 dal settimanale Ardweek e ripreso poi nel 1986 dal Wall Street Journal, sono passati quasi trent’anni, ma il soffitto non è stato nemmeno scalfito. Negli Stati Uniti il Dipartimento del lavoro, definisce il soffitto di cristallo come “l’insieme di quelle barriere artificiali basate su pregiudizi attitudinali e organizzativi che impediscono a persone qualificate di avanzare fino a raggiungere posizioni direttive nell’organizzazione in cui lavorano”.  Uno di questi ostacoli si riferisce alla dimensione privata della donna al suo ruolo preminente di madre, moglie che si scontra con il ruolo di donna che lavora, questi due ruoli determinano la problematica della doppia presenza e la difficoltà di conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro. Nel vivere la doppia presenza, le donne sono state condizionate dalla protratta tradizione di sfruttamento del lavoro femminile tipica della realtà italiana, che, non va dimenticato, prima ancora che un fatto culturale, ha rappresentato una risorsa funzionale alla “tenuta” del nostro sistema sociale, a fronte dei ritardi e delle lacune con cui, il welfare state, si è sviluppato, nel nostro Paese. Esistono poi degli ostacoli strutturali, che considerano come causa  dello scarso numero delle donne presenti nelle posizioni lavorative di vertice, la loro mancanza di risorse fondamentali per occupare queste posizioni. Nello specifico, da una parte le donne sarebbero carenti in conoscenze, competenze ed esperienze, ovvero nel capitale umano, dall’altra mancherebbero di figure femminili di sostegno, mentor e tutor, figure senior, che impedirebbe loro di compiere esperienze significative e le priverebbe di importanti riferimenti; sarebbero, quindi, carenti in capitale sociale . Tali figure e strutture sono usate abitualmente dagli uomini da sempre. Il quadro che emerge è che le donne dimostrano di essere in gamba anche nelle discipline più mascolinizzate, e avrebbero tutte le carte in regola per fare carriera, ma sono fermate nell’ascesa da questo ostacolo invisibile, responsabile del divario tra i sessi, che aumenta man mano che si sale nella scala gerarchica dei ruoli, che determina appunto, un limite invalicabile degli strati più alti delle carriere, e schiaccia le donne verso un pavimento appiccicoso che trattiene un gran numero di, ricercatrici, scienziate, politiche, ai livelli minimi della loro carriera.  Un altro fenomeno ostacolante è quello della dominanza sociale, cioè il potere esercitato da un gruppo nei confronti di un altro. L’errore che commettiamo è, confondere il potere con il prestigio e la ricchezza, in realtà il vero potere, non è una caratteristica fissa delle persone, non è qualcosa di statico, ma sottintende una relazione dinamica, e cioè il potere di fare qualcosa su qualcuno, e porta spesso ad azioni di ritorsione contro le donne. Su queste azioni  ostili contro le donne da parte degli uomini si concentra il fenomeno del gatekeeping, letteralmente è l’azione dello star di guardia ai cancelli. Quando le donne iniziano a partecipare in contesti maschili, come la politica o l’alta finanza, o le gerarchie militari esse, vengono percepite come space invaders e gli uomini chiudono i cancelli e difendono la loro nicchia di potere, spesso con l’esclusione e la delegittimazione, con commenti e battutine sulle colleghe ritenute brave e popolari e percepite quindi come rivali. Il motivo di questa accanita resistenza degli uomini, è spiegata bene dal fatto che, il nostro soffitto di cristallo non è altro che il loro pavimento di cristallo, se noi lo portiamo via, loro rischiano di cadere. La paura di cadere degli uomini, simboleggia la loro ansia di perdere il controllo nella loro professione e, soprattutto, la frustrazione provata nel doverlo affidare alle donne. Solo in alcuni casi alle donne vengono affidati compiti di leadership organizzativa, e cioè nei momenti di crisi e in ambienti ad alto rischio di critica, di impopolarità, di fallimento, tale situazione è un ulteriore evoluzione del glass ceiling e denominato glass cliff o precipizio di cristallo. Ne è d’esempio il governo tecnico attuale, le ministre del governo Monti occupano ministeri da sempre oggetto di contesa da parte dei partiti ,interni welfare e giustizia. Non esistono solo logiche per escludere le donne  o il loro soffitto di cristallo, ma spesso stereotipi duri a morire che ingessano le azioni e i pensieri delle donne. Come un  certo senso comune che ci vuole l’una contro l’altra e sintetizzato dalle frasi “ basta con le donne che litigano” o” la peggior nemica di una donna è un’altra donna”. La  rivalità tra donne esiste tanto quanto quella tra uomini, ma quella che colpisce è quella tra donne. Le donne mentalmente non vanno in guerra e spesso ignorano volontariamente la conseguenza delle cose che dicono,  abituate a recuperare nell’ambito privato, interno, di relazioni e di bisogni, e tendono ad autolimitarsi nelle competizioni, preferendo in alcuni casi il pettegolezzo, lo screditamento del valore dell’altra, così da conservare buone relazioni sociali, anziché perderle a causa dell’eccessiva tensione che si genera nello scontro diretto, specie in situazioni a due in cui una vince e l’altra perde. Una competizione  chiara, diretta,  esplicita, e riconosciuta socialmente, ci aiuterebbe a migliorare la qualità dei rapporti. è un invito a rinunciare agli stereotipi e provare a guardare uomini e donne con occhi diversi. Certo quanto detto fino ad ora può generare un facile sconforto, perché sembra probabile concludere che occorrerebbero non una, ma una serie di rivoluzioni sociali per arrivare alle pari opportunità.  E’ essenziale che le donne si attivino e faccino uno sforzo collettivo per il perseguimento e riconoscimento di una parità effettiva nel mondo del lavoro, l’unione delle donne sarebbe utile per formare gruppi di pressione, perché una minoranza attiva anche se resa marginale è in grado di fare pressione sulla maggioranza e innescare così mutamenti sociali e legislativi. La possibilità di sfondare il soffitto è fortemente legata alla capacità delle donne di fare rete e  costruire un sistema di relazioni al femminile che diventi una risorsa preziosa per tutte. Sulla base di quanto detto fino ad ora nel 2004 fondammo il Forum donne socialiste , con l’obiettivo di creare un luogo in cui le donne potessero incontrarsi conoscersi e litigare, unico nel suo genere per proposta politica e metodo organizzativo, composto da donne attive nel partito, che hanno elaborato proposte di organizzazione interna, promosso una campagna di sostegno alla politica delle regole, creato tavoli di lavoro, convegni organizzati,contribuito a costruire momenti di dialogo,di incontro e di confronto. Anche se Ripensando ai luoghi praticati, mi rendo conto che rimane ben poco del lavoro fatto, perché nonostante i nostri sforzi non siamo state in grado di produrre una nuova pratica del potere, una microfisica di atti, capaci di arginare gli effetti del risentimento, del rancore, dell’esonero consolatorio. Non abbiamo trovato, forme di esercizio davvero libere, libere dal sentimento di essere comunque abusive, colpevoli, incongrue, inadeguate. I nostri sforzi, le nostre lotte, non hanno avuto la capacità di trasformare, il nostro differire nella gestione del potere, in una tradizione, in un sapere da tramandare, con il quale educare le giovani donne. La differenza che esiste tra noi e gli uomini è che noi facciamo gruppo, loro squadra, la vita pubblica si basa sulla forza della squadra, la squadra è la storia del genere maschile, gli uomini, si combattono, si fanno la guerra ma si danno una continuità, la continuità è garantita da regole intrinseche di auto perpetuazione del potere. I movimenti delle donne, sono gruppi fluidi che nascono nell’ambito pubblico, ma che conservano del privato, la ricchezza e al medesimo tempo la fragilità ,dei sentimenti, degli affetti, delle emozioni personali, per cui il legame affettivo che si forma è facile che si dissolva, ne consegue che il gruppo può procedere a momenti come un corpo unico, e un attimo dopo questa forza collettiva, si incrina per entrare nel migliore dei casi in una zona carsica. Ma non siamo alla resa, ricominciamo a lavorare partendo da qui.Concludo velocemente con una domanda che invita ad un ulteriore riflessione
CHI mai può pensare che noi donne al potere faremmo peggio di ciò che è stato fatto fino ad ora in Italia?